La storia di Abdì e di un caffè inaspettato: quando Islam e Cristianesimo si incontrano nel nome di San Nicola

BARI – E’ la terza domenica dopo Pasqua e, come spesso accade al termine della messa, i bambini giocano in oratorio mentre i genitori prendono un caffè offerto da alcuni volontari della parrocchia del Preziosissimo Sangue. In giro c’è un’aria di festa, proprio come dovrebbe essere ogni giorno.
Mentre aiuto a ripulire il tavolo fino a poco prima pieno di ciambelle e dolci e parlo con un amico che pulisce la macchinetta del caffè, entra un uomo africano. E’ magro, capelli rasati, vestito dignitosamente e sfoggia un sorriso cordiale. Ci guarda e chiede se sia oggi il giorno della mensa per i bisognosi, ma il mio amico risponde che “il pranzo è servito solo ogni ultima domenica del mese”, quindi quella passata, non oggi.
Quell’uomo, però, non ne fa una tragedia e, pur vedendo sul tavolo succhi di frutta, biscotti e ciambelle, non osa chiedere qualcosa da mangiare.
Il volontario, interrompendo le nostre futili chiacchiere, gli chiede se desidera un po’ di latte e caffè o se vuole assaggiare e portarsi a casa gli ultimi pezzi di torta con la marmellata. Lui accetta volentieri: prende qualche fetta e la mette in una bustina, mentre ne assaggia alcune nell’attesa del caffè.
Ne assaggio una anche io ed esclamo “Buono!”. Il nostro ospite, sentendo le mie parole, conferma il sapore e risponde in un italiano adeguato: “Vero! Molto buono!”. Il mio amico allora gli chiede se ne vuole altri e se desidera altro latte, ma lui, con il suo viso magro, agita la mano, facendo capire che è soddisfatto così. Poi spontaneamente gli chiediamo se abita qui vicino. Gesticolando dice che vive vicino la scuola Garibaldi, nel quartiere Libertà. Il suo sorriso è contagioso. Allora nasce un dialogo tra noi: “Da quanto tempo sei in Italia? Parli molto bene l’italiano. Da dove vieni?”. Ovvie domande quando si incontra e si vuol conoscere uno straniero. “Vengo dalla Somalia – risponde lui – e sono in Italia da dieci anni”. Parla serenamente anche quando gli chiediamo qualcosa del lavoro: “Purtroppo non riesco a trovare niente – spiega -; ho lavorato soltanto trenta giorni e nemmeno a Bari…”
Non è nostra intenzione indagare sulla sua vita privata, ma siamo solo curiosi di conoscere e capire come faccia a vivere nonostante le difficoltà di essere lontano da casa. Casa che, qui in Italia, condivide con altre persone. Gli chiediamo “Ti manca casa tua? Sei tornato in questi anni?”. Ci risponde che “in Somalia la situazione è grave, c’è una guerra che dura da trent’anni. Qui c’è una dimensione di pace”. E’ evidente che si tratta della verità.
Il suo modo di comunicare chiaro e gentile ci porta a chiedergli se abbia mai studiato: “Ho studiato amministrazione e management”, ci risponde. Inizia a spiegarsi in inglese, ma noi capiamo poco e pensiamo che la sua formazione sia del tutto rispettosa e meriterebbe maggiore fortuna. Eppure lui non mostra rimpianti o dispiaceri.
Poi ricordo che è periodo di Ramadan. Inizia stasera. Proprio lui, mentre prende il caffè, ci scherza su: “Ne approfitto adesso perché tra un po’ inizierà il digiuno”. Da curioso – e da fedele di un’altra religione – gli chiedo di darmi altre informazioni su questa pratica: “Non possiamo mangiare e bere sino al tramonto per circa 30 giorni. Dobbiamo dedicarci maggiormente alla preghiera, alla carità, alla ricerca di Dio”. Non sembra preoccupato di questo duro cammino in cui per gran parte della giornata non si può bere nemmeno l’acqua: “Cerchiamo di nutrirci di Dio”. E’ un impegno che prende ogni musulmano, però ho un dubbio: “E’ un dovere di ogni musulmano, anche di quello che non pratica, o non è così interessato alla religione? Come, per esempio, esistono cristiani che non intraprendono un cammino, a cui interessa poco…”. Noi lo ascoltiamo: “Sì, ogni musulmano lo deve fare, ogni musulmano è chiamato a praticare il Ramadan. Questo è un periodo in cui Dio guarda ognuno di noi e fa, come dire, una lista. Ci osserva e valuta il nostro impegno, le nostre preghiere. Egli sa per cosa siamo chiamati in questa vita, quindi ogni musulmano sa che Dio lo osserva”.
Per cercare di spiegarsi ci chiede se anche noi, come cattolici, abbiamo un periodo simile. Guardando negli occhi il mio amico e un’altra ragazza che era entrata per un caffè, cerchiamo di dargli una risposta. “Forse un periodo simile è la Quaresima – diciamo – anche se non esiste un’obbligatorietà rigida, come ci sembra il Ramadan, che incrocia fede, tradizione, cultura e legge. Nel cattolicesimo c’è maggiore introspezione, preghiera, ricerca di sé, ma tutto è legato alla propria coscienza”.
L’uomo somalo ascolta e annuisce, mentre noi ragioniamo sulla sua volontà di affrontare il Ramadan, oltre che sulle difficoltà concrete della sua vita: “Sono contento così – confida -, anche se non mangio so che Dio provvederà. Pur non lavorando cerco di accontentarmi. In qualche modo Dio ci penserà”.
Prima di andar via ci stringe la mano. Si chiama Abdì. Alle porte del Ramadam, che quest’anno coincide con l’inizio della festa di San Nicola, protettore (anche) dei forestieri, mi piace pensare ad Abdì come un semplice segno di accoglienza del nostro Santo Patrono.
